Con gli anni aveva imparato a riconoscere gli sguardi che le indirizzavano e a distinguerli: quelli degli uomini esprimevano disgusto, di quel genere volgare che essuda dai discorsi da spogliatoio; quelli delle donne avevano più il sapore della commiserazione: era la povera, la derelitta, ma allo stesso tempo rea di non fare abbastanza per rimanere in forma o curarsi maggiormente del proprio corpo. Erano i giudizi delle donne a ferirla maggiormente. « »

Eppure lo sguardo che le aveva rivolto l’uomo che aveva incrociato mentre con la borraccia dell’acqua assicurata al polso avanzava in direzione del suo angolino era qualcosa di diverso, di nuovo. Era come se le sue dimensioni, le sue braccia gonfie, le sue gambe storte, quel naso aquilino ereditato dalla nonna rappresentassero un’esistenziale e irrimediabile offesa al buongusto; e che così sortite a comporre la sua persona non avessero diritto di esistere (in quel museo, in quella città, nel mondo). Ci rimuginava su, piantata sullo sgabello sbilenco che nel giro di poche ore avrebbe risvegliato il suo mal di schiena cronico. Pensava al fatto che il senso estetico doveva essere qualcosa di esclusivo, un dono di quelli che il Destino distribuisce a casaccio tra le persone, come la salute, la fortuna o il denaro, quando un tipo occhialuto iniziò a sbraitare nella sua direzione: «tu là in fondo… sì dico a te, maledizione – prese a scuotere la testa – immagino non ti abbiano avvisata. Ci devi dare una mano a chiudere la sala per qualche minuto, dobbiamo portare qui un Blu.»

Avrebbe potuto obiettare che c’erano delle procedure, che negli ordini di servizio che riceveva tutte le mattine non c’era traccia… ma tra il gruppo di uomini dietro a un carrellino che barcollava su quattro ruote ondivaghe intravide Paride, il responsabile del piano. Annuì e si mise a posizionare i nastri all’entrata e all’uscita della sala. Ci fu un certo trambusto per qualche minuto, il quadro fu collocato al suo posto e il gruppetto si dileguò. Si mise a ispezionare la tela.

«Non le piace.» Non poteva credere ai propri occhi. Era l’uomo che aveva incrociato appena entrata al museo. Si irrigidì.

«Di quadri così, di un solo colore intendo, Klein ne ha realizzati più di mille.»

Sorrise imbarazzata. Meglio assecondare quel tipo strano. «Provò per tutta la vita a rappresentare le infinite sfumature dei colori, che poi sono l’essenza di ciò che ci circonda, la materia prima dell’esistenza.»

«Magari non significa niente, è solo una tela dipinta di blu. Si fece in fine coraggio Nora. «In fin dei conti non tutto ha uno scopo: alzarsi ogni mattina alla stessa ora, prendere la metro, starsene immobile  a osservare le persone che vanno e vengono al museo per l’intera giornata, passare al super sulla via di ritorno per comprare qualche busta di surgelati e le confezioni maxi di chips (gusto piccante e doppio formaggio pesò tra sé e sé), scaldarsi la cena al microonde e consumarla davanti alla tivù per poi crollare sul divano, passare al letto e la mattina dopo ricominciare daccapo. Se cose del genere non hanno un senso, perché mai dovrebbe averlo questo quadro?»

«Mi dispiace… Sa una cosa? Klein del blu in particolare non era mai soddisfatto, ne provò centinaia di varianti, ma sentiva che ne mancava una, fondamentale. E quindi che fece? La inventò: è proprio questa di fronte a noi, il blu Klein.»

Nora iniziò a studiare attentamente il quadro: era davvero una sfumatura inconsueta di blu. Un blu così bello, intenso, il padre lo avrebbe definito oltremare. Quanto gli piaceva quella parola, doveva averla sentita da qualche parte, ma non ne conosceva esattamente il significato perché per tutta la vita l’aveva usata a sproposito. Fosse stato per quello, lei il blu l’avrebbe odiato. E invece ne era attratta.

Chiuse gli occhi: rivide il giorno in montagna quando, sdraiata su un campo ripido che se non stavano attenti ruzzolavano a valle, l’aveva baciata Rino. Avevano sedici anni e lui, beh! era semplicemente l’uomo più bello che avrebbe mai frequentato in vita sua. Tamara le aveva consigliato di chiudere gli occhi quando sarebbe capitata quella cosa, ma lei impunemente li lasciò aperti; spalancati addirittura perché voleva vedere il viso di Rino sul suo, il naso perfetto, i grandi occhi chiari, del medesimo blu di quel pezzo di cielo che faceva capolino tra i capelli arruffati. E si sentiva bella e fortunata: cantava così bene che aveva ricevuto un’offerta da una piccola casa discografica per incidere una sua canzone. Era al colmo della felicità, non poteva immaginare allora che tutto sarebbe andato diversamente, che Rino l’avrebbe scovato con un’altra nei bagni della scuola il giorno che doveva andare allo studio di registrazione per incidere; che non ci sarebbe andata a quell’appuntamento tanto era disperata e la voce le sarebbe morta in gola; non sapeva che rimasta a casa da sola avrebbe tentato di farla finita in modo goffo con il rasoio da poche lire del padre che l’aveva solo sfregiata senza mettere fine alle sue sofferenze; che sarebbe stata internata in un manicomio – che a casa sua ipocritamente chiamavano clinica – guardata a vista da un medico schifoso che non aveva per nulla a cuore la sua salute. L’uomo a cui era stata affidata la riempiva di sonniferi e ogni volta che ne aveva occasione la palpava, si strusciava contro i suoi seni, le mormorava frasi sconce di cui allora non conosceva neppure il significato. Ignorava che, uscita da quel manicomio, sfatta, arrabbiata, umiliata, avrebbe smesso di parlare per sempre a suo padre, colpevole di aver chiuso gli occhi su quegli abusi nonostante lei avesse provato a raccontarglieli, insensibile alle sue preghiere di portala fuori da lì… Cosa avrebbe potuto fare, se non arrendersi?

Pianse.

Il museo chiuderà tra trenta minuti, si pregano i gentili visitatori di concludere la visita e recarsi all’uscita.

Controllò l’orologio: erano passate sei ore da quando aveva parlato con quello strano visitatore. Non aveva toccato cibo ed era rimasta immobile davanti alla tela per tutto quel tempo. Stava per andarsene quando notò sul suo sgabello un pezzo di carta.

Ho voluto rappresentare il cielo e le sue infinite possibilità, Yves Klein.

Si mise a cercare l’uomo nelle sale che si svuotavano, lungo i corridoi, al guardaroba, al bookshop. Nessuna traccia. Fece un ultimo tentativo, uscì all’aperto sotto la volta celeste che imbruniva. Tremò impercettibilmente, si strinse nella giacca di nylon. D’un tratto avvertì l’abbraccio mite della sera che virava al blu. Un blu oltremare.

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