Il semaforo rosso davanti all’ennesimo tunnel ci intima di fermarci. E aspettare. Galleria strana questa, diversa da tutte quelle che attraversiamo da giorni lungo la statale AK-1 S, che poi dovrebbe stare per Alaska State Highway 1: una bocca spalancata in un grido e incorniciata in un gioco di forme geometriche triangolari che sembra precipitata da un film di fantascienza degli anni settanta. Somiglia al modellino dell’astronave del telefilm Spazio 1999 che ricevetti in regalo per i miei sei anni, aveva proprio quel disegno sul davanti. Strani scherzi tira la memoria, pensavo che quel ricordo lontano fosse stato completamente cancellato e invece… sarà che dal giorno in cui ho festeggiato l’ultimo compleanno mi si è aggrappata addosso la sensazione di sentirmi alieno in questo luogo che non sembra neppure la terra.

«Dove stiamo andando?», sbuffa Andrea al mio fianco ticchettando nervosamente sul volante. Non sa mai dove siamo diretti quando siamo in vacanza, lo riterrebbe un inutile spreco di tempo. Sono io che tengo d’occhio il programma di viaggio, mi dà sicurezza sapere sempre cosa ci aspetta. Eppure per dove siamo diretti oggi devo controllare di nuovo sulla Lonely Planet, perché quel nome non mi vuole proprio rimanere in testa.

«Whittier.»

«E cosa c’è a Whittier?»

Benvenuti nella città più inospitale della terra! mi rimbalza la pagina.

Non c’è troppo da preoccuparsi! Queste guide tendono sempre a esagerare, ogni discreto view point offre sempre il più bel tramonto mai visto, l’anonimo ristorante lungo la statale il luogo dove assaggerete il granchio più delizioso mai assaggiato e così discorrendo.

«Niente, ci prendiamo solo il traghetto per una crociera lungo i fiordi meridionali», mi soccorre il ricordo di ciò che mi ha detto la consulente viaggi prima di partire.

Luce verde: la macchina inizia a sobbalzare su un binario ferroviario logoro, la bocca del tunnel ci ingoia nel buio. Interminabili minuti di claustrofobico attraversamento a passo d’uomo e veniamo lanciati dall’altra parte lungo uno spettrale corridoio di container impilati l’uno sull’altro in attesa di essere imbarcati e andarsene anche loro per chissà dove. Inizia anche a piovere. In pieno agosto.

Sulla grande banchina di cemento sosta solo un’altra auto. L’abitacolo riverbera una labile luce azzurrognola che per un istante rivela un’ombra appena catturata con la coda dell’occhio. Andrea esce dall’auto ed entra in un prefabbricato illuminato a giorno da una santabarbara di neon. Seguo ogni suo passo con un’angoscia montante: si guarda intorno, lancia un’occhiata al distributore automatico di junk food per nulla invitante e a una di quelle macchine che gocciano brodaglia nero pece in luride caraffe trasparenti. Poi si blocca mettendosi a fissare una parete. Quando infine si riaffaccia nell’abitacolo sfuria: «Cancellato!»

«Cancellato cosa?» chiedo nonostante conosca già la risposta.

«Il traghetto, per il maltempo.»

«E adesso che facciamo?» tremolo con un filo di voce.

A peggiorare il senso di spaesamento noto che l’altra macchina non è più dove dovrebbe essere, si è dissolta nella nebbia o è stata ingoiata dal mare che ruggisce contro la panchina? Al suo posto c’è dell’altro: irrompe nel mio campo visivo la sagoma di un uomo, ritto e incurante della pioggia. Guarda proprio da questa parte. Lo vede anche Andrea e – non ci posso credere! – abbassa noncurante il mio finestrino.

«Siete qui per il ferry

Annuisco rigido, perché di parlare proprio non mi riesce.

«È stato cancellato… capita», alza le spalle.

«Potremmo tornare indietro lungo la strada mi sembra di aver incrociato un motel…» prova a replicare Andrea.

«Non è possibile, hanno chiuso il tunnel ed è l’unica strada per tornare indietro» sbuffa lo sconosciuto.

«C’è un hotel in città?», per una qualche ragione incomprensibile Andrea in vacanza perde il suo proverbiale senso del reale.

«Nessuno, c’è solo la Tower», e indica qualcosa oltre la finestra alle pendici della montagna. Con Andrea ci scambiamo uno sguardo interrogativo, se non fosse che lo sconosciuto ha già ucciso sul nascere ogni nostra speranza a riguardo, avrebbe proprio l’aspetto di un albergo.

L’uomo alla fine butta la testa dentro l’auto. Ha una lunga barba incolta e la pelle bruciata dal vento e dal freddo, occhi chiari inespressivi e un pungente odore di mare che mi penetra nelle narici. Sarebbe perfetto nella parte del capitano Achab.

«A Whittier abitiamo tutti lì», riprende

«Tutti nel medesimo condominio?»

«Proprio così. Però, se venite con me potremmo trovarvi una sistemazione per la notte.»

Lo seguiamo. Io ho preso a tremare per il freddo e per la paura, Adrea invece non sta più nella pelle, a lui l’ignoto provoca scariche di adrenalina. Un anonimo palazzone ci accoglie silenzioso: a fatica stiamo dietro all’uomo che inanella falcate sempre più lunghe, macinando metri su metri di corridoi schiacciati da soffitti bassi e illuminati da una fila di tubi luminescenti che sfrigolano al nostro passaggio. Soffoco il senso di nausea per il lezzo di terra mista a pioggia che sale da una moquette color carne, rabberciata qua e là alla carlona. La nostra galoppata lungo il dedalo di plastica e lana di vetro termina finalmente in uno slargo angusto nel quale rimbomba una musica country. Veniamo presentati a un certo John, un uomo enorme, infagottato in un parka tecnico dai colori sgargianti dai quali sbucano solo un grosso paio di occhiali e un’altra barba melvilliana. Ascoltato il racconto del nostro salvatore, John spegne controvoglia la radio, e si mette a sfogliare un librone, ricoperto di un intreccio d’inchiostro sbavato. Nel silenzio solenne che è calato su di noi come un corposo banco di nebbia mi ritrovo a fissare la sua mano che corre veloce fino alle ultime annotazioni, rimango ipnotizzato dalla forza e dalla destrezza del semplice gesto di scorrere e voltare pagina, scorrere e voltare, scorrere e…

Finalmente il ditone di John interrompe la propria corsa: fourteen-twenty-three, oracola.

Saliamo al quattordicesimo piano senza incontrare nessuno. Davanti al nostro appartamento ringraziamo il nostro accompagnatore al quale finalmente chiediamo il nome: borbotta qualcosa che Andrea è sicuro sia Stan, a me arriva Stubb. Devo smetterla perché non mi è di alcun conforto fantasticare su improbabili parallelismi letterari.

Dalle finestre dell’appartamento una luce blu a striature gialle illumina i contorni di grande locale completamente arredato: si intuiscono una tivù, una libreria, un tavolo e una cucina attrezzata con ogni sorta di elettrodomestico. Mi sento un ladro in procinto di essere beccato in flagranza di reato, un intruso, ma con le sue buone ragioni: ho un disperato bisogno di dormire. Mi richiudo la porta alle spalle schiacciando il nottolino della serratura per essere sicuro che la manopola rimanga bloccata, ho sempre la sensazione che queste serrature possano venire giù come cartapesta con un colpo un po’ più forte degli altri. Butto un occhio fuori dalla finestra, sotto si vede la banchina con i grandi lampioni che illuminano l’asfalto e oltre si intuisce il mare scuro e le montagne. Finalmente mi lascio cadere sul letto.

Nonostante la stanchezza non mi riesce proprio di dormire. È colpa delle voci, quelle che mi raggiungono dalle pareti.  All’inizio è solo una banale conversazione con un tono un po’ troppo alto, come capita di sentirne tutti i giorni. Dopotutto gli esseri umani con i loro piccoli drammi domestici si somigliano in ogni parte del mondo. Poi i toni si accendono e con loro la mia curiosità.

Sono stanca mi raggiunge la voce di una donna attraverso la parete alle mie spalle. So cosa intende, quel genere di spossatezza che non è fisica, la medesima che avverto anch’io che pure sono in vacanza e dovrei sentirmi leggero.

Di nuovo con questa storia, smettila! la rimprovera una voce baritonale.

Il rimestare nervoso in un cassetto pieno di oggetti metallici che tintinnano sposta la scena in cucina. Viene acceso un bollitore.  La donna riprende: una madre da qualche parte è d’accordo con lei. L’uomo non replica, forse ha definitivamente scelto il silenzio. Una porta sbatte in fondo all’appartamento, segnalando una ritirata. Nel silenzio che segue riesco a prendere sonno finché un pianto sordo mi riporta vigile. Quando è cominciato, da dove viene? Non sono certo che provenga dal medesimo appartamento del litigio, potrebbe venire dal piano di sopra, da un’altra camera da letto. Le pareti sottili della Tower sono diaframmi permeabili, sembrano pulsare anche loro, trattenere e rilasciare i suoni seguendo una qualche partitura… l’intero edificio mormora, borbotta. E piange. Mentre la tempesta fuori è solo un’eco lontana.

Le voci mi rincorrono, stanandomi da sotto le coperte per lunghissime ore. Mi fanno pensare a noi due, a come siamo cambiati negli anni: «Non ci parliamo più! Mi mancano anche i nostri litigi, la gelosia… a volte ripenso con nostalgia addirittura alla volta che mi hai cacciato di casa a calci furioso perché pensavi che ti avessi tradito… che cosa stupida!» Andrea respira rumorosamente al mio fianco.

«Sai è che… mi capita sempre più spesso di sentirmi estraneo, ormai uscire mi costa fatica, soprattutto le persone mi costano fatica, non le capisco…»

Continuo mentalmente tanto Andrea non dà alcun segno di ascoltare: potrebbero bastarmi quelle voci per sapere che non sono rimasto solo, che le relazioni con gli altri rimangono una possibilità cui posso accedere quando sono dell’umore giusto, quando mi va di parlare e non solo di ascoltare. Cullarmi nell’infinito delle possibilità. Ma avrei bisogno di sapere che tu ci sei.

Al risveglio fuori infuria ancora la tempesta e il mare è così grosso che la banchina quasi non si vede più, coperta dai marosi. Andrea si dà un gran da fare, chiede, si informa se per caso c’è la possibilità di ripartire. Nessuna novità, siamo bloccati qui. A quel punto decidiamo di tenere accesa la radio sulla frequenza 97.6, trasmettono il bollettino meteo locale, a quanto avrebbero detto ad Andrea è l’unico affidabile per il tempo a queste latitudini. Non so se il rincorrersi monotono dei nomi incomprensibili di angoli di nulla ci saranno utili, ma almeno riempiono i nostri silenzi.

A mezzogiorno decidiamo di mettere il naso fuori dall’appartamento: prendiamo il montacarichi fino al primo piano, ci affacciamo al mini market, diamo un’occhiata all’angolo ristoro e alla sala giochi. Riconosciamo Stan-Stubb, se ne sta solo a consumarsi una sigaretta nella smoking room. Rimaniamo un po’ accanto a lui, Andrea lo tempesta di domande ma lui di tutta risposta articola qualche suono senza rivolgersi a noi direttamente, con inconsapevolezza come se l’emettere dei suoni non sia il risultato di una qualche volontà, ma un gesto automatico come respirare. Tuttavia mi guarda di continuo, punta i suoi occhi che penetrano i miei, più volte devo distogliere lo sguardo per l’imbarazzo. Sento che quando mi guarda lo fa con intenzione.

Ammazzo il tempo osservando qualche inquilino di passaggio: il condominio-città ha le sue regole, è un microcosmo fondato sui registri. Su spessi libroni di carta riciclata si appunta ogni cosa: debiti per la spesa, il noleggio dei DVD, i turni pulizia delle aree comuni. Numeri su numeri, come quelli che ti ributtano in faccia gli inquilini della Tower quando si presentano a noi: welcome o i più formali nice to meet you e poi il numero di stanza: due ragazzi giovani dalle parvenze orientali che intercetto mentre escono dalla farmacia, five-eleven; un uomo sulla sessantina che mi piace immaginare pittore visto che esibisce senza vergogna le mani sporche di tempera,  eight-fifteen; la signora che il Jack Russell che non la smette mai di abbaiare si scusa con noi evidenziando che lei sta all’ultimo piano, seventeen-twenty. E poi ci sono loro. Li vedo alla cassa del mini market e ho subito la sensazione che si tratti dei nostri vicini, così mi metto a seguirli.

Avranno si e no quarant’anni, lei fa la schiva ma ha gli occhi che girano, roteano in cerca di qualcosa o qualcuno a cui aggrapparsi. Più la osservo più ho la sensazione che chiedano comprensione, è questo che me la rende familiare. Stringe al petto due grandi sacchetti di carta scura dai quali escono un paio di calze di spugna nuove fiammanti. Cammina a passi lenti mentre il compagno al suo fianco se ne sta con la testa china a compulsare sullo smartphone.

«Jean.»

«Sì, che c’è?»

«Ti sei ricordata lo shampoo?»

Non ha il tono di un rimprovero, è piuttosto… incolore.

«Si certo, ho preso quello che…»

L’uomo smette di ascoltarla e riprende a camminare con la testa bassa.

Attendo che prendano l’ascensore e appena si chiudono le porte fisso il display per conoscere la loro destinazione. Ci ho visto giusto, vanno proprio al quattordicesimo.

Dopo cena, lascio Andrea che se ne sta mezzo addormentato a guardarsi un talkshow su Fox e mi chiudo in camera appoggiando l’orecchio contro la parete: i vicini non parlano eppure ci sono perché sento i loro passi attutiti dalle calze di spugna; scorre acqua da un rubinetto, avverto il fruscio delle setole di uno spazzolino passato con decisione sui denti. I silenzi diventano interminabili, mi tolgono il sonno facendomi consumare tutta la notte in attesa che succeda qualcosa. La sveglia segna le 2.05 am quando spalanco gli occhi. Mi è parso che abbiano ricominciato… falso allarme – maledizione! – è solo la stupida caldaia che spinge nelle tubature. Mi arrovello in vaghi pensieri, penso che da quando siamo qui nessuno ci ha chiesto di noi: da dove veniamo, che ci facciamo qui o dove siamo diretti… è come se una volta entrati in questo strano organismo fatto di cemento e carne diventasse irrilevante tutto ciò che è stato, forse addirittura chi sei, e contasse solo che ci sei.

C’è una debolissima luce che penetra tra le tende quando una serie di colpi alla porta mi fanno sobbalzare sul letto. Le grida di Stan-Stubb, ferry, ferry… leaving ci buttano giù dal letto; come se fosse stato sempre lì ad aspettarsi, un enorme traghetto dallo scafo argentato è ormeggiato alla banchina.

Sbrighiamoci, urla Andrea mentre butta nella valigia le nostre cose. In pochi minuti siamo in auto, le chiavi dell’appartamento mi sono rimaste indebitamente in tasca ma riesco a lanciarle a Stan-Stubb, che ci ha accompagnato alla nave e che per tutto il tempo che impieghiamo per salire all’ultimo ponte e a entrare nella nostra cabina rimane a guardarci dal molo.

La nave deserta è tutto un luccichio che stordisce, maniglie d’ottone tirate a lucido, tappeti che sanno di pulito, uomini in uniforme candida e un ristorante apparecchiato per una colazione pantagruelica. Nella grande sala panoramica oltre a noi c’è solo un’altra coppia di turisti che ingollano pancake. Ci sediamo: oltre le vetrate la Tower domina il porto, è così grande che nell’aria tornata di un azzurro intenso pare di poterla toccare. È a quel punto che la vedo, ne ho una tale consapevolezza che a pensarci ora avrei anche avuto il tempo di fare qualcosa. Avrei forse potuto fermarla. E invece rimango impietrito mentre Jean fa scorrere lentamente gli infissi in alluminio della finestra del suo appartamento, si arrampica sul davanzale e allargando le braccia si lancia nel vuoto.

Ad Andrea non riesco a dire niente, mi metto solo a piangere in silenzio.

***

 

3 thoughts on “[Welcome!] – racconto breve”

  1. Molto bello Enrico!! sembra di respirare la nebbia fredda che penetra nel cemento della tower e l’angoscia che aumenta per qualcosa che deve necessariamente accadere. Non so cosa deciderai di fare in futuro ma non perdere la “mano” dello scrivere.continua così.
    Daniela

    1. Grazie Daniela, sono contento che il racconto ti sia piaciuto, che pur nella sua brevità ti abbia trasmesso una sensazione. un nuovo libro è in realtà già pronto, sta “solo” cercando un editore. Spero di aver presto buone nuove.
      Ciao Enrico

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