Pubblico la seconda parte di un mio racconto inedito (la prima la puoi leggere qui)

***

«Hai una bella faccia tosta a presentarti così…» Il modo in cui Marina mi accoglie mi intenerisce e mi rassicura: lei mi riconosce.

I modi bruschi sono quelli di un tempo, i medesimi di quando stavamo insieme. Era sempre stata una che non le manda a dire. Con Marina meglio stare un passo indietro, adottare uno stoico atteggiamento di remissività.

«Non hai risposto a nessuna delle mie chiamate, mai. Sei sparito senza alcuna spiegazione. Mi viene una voglia matta di prenderti a cazzotti. Sai perché non lo faccio?»

Mi guardo bene dal risponderle.

«Perché – paradossalmente – se mi metto a percuoterti ti faccio un piacere. Già! In un attimo passi dalla parte della vittima. Ti è sempre piaciuto fare la vittima…»

So di meritarmi tutti gli improperi che mi vomita addosso. Rimango immobile, con lo sguardo basso giocando a perdermi tra le geometrie del pavimento. Negli anni ho imparato che non ha senso provare ad obiettare. Ci ho provato prima di scomparire e il risultato è stato disastroso: quanto ci siamo feriti! Ho provato a spiegare a Marina che il fatto di dover corrispondere a delle aspettative mi soffoca. Mi sento in gabbia. Allora come ora. La realtà non è cambiata: anche in queste ultime settimane in cui le circostanze mi hanno costretto a rispettare un piano per risolvere la iattura dei documenti io mi estraneo, non mi confronto con ciò che è contingente ma torno con il pensiero agli attimi di libertà, quando le mattine sono diverse l’una dall’altra, nessun orario è prestabilito, nessun appuntamento fissato, nessuna incombenza, niente di niente. Un’esistenza libera da qualunque cosa inutile o noiosa.

«Ma tu non mi stai ascoltando!» mi sento sussurrare a pochi millimetri dal naso. «Vieni qui dopo tanti anni con la faccia di uno che è uscito cinque minuti a comprare il latte, mi dici che hai bisogno di un favore e mentre ti parlo tu pensi ai fatti tuoi?»

«Mi spiace. Mi spiace di non sapere cosa dire, mi spiace di non aver risposto alle tue chiamate, mi spiace di averti lasciata, mi spiace di tutto… ho sbagliato è vero. Niente di ciò che ho fatto dipende da te, sono io che sono… fatto male. Sono sbagliato.»

Marina smette di incalzarmi. Si lascia cadere dolcemente sulla poltrona. Colgo al volo l’attimo di quiete e le racconto della questione dei documenti, tutto d’un fiato. Mi ascolta poi scoppia a ridere. Una risata di gusto, profonda, che mi pare interminabile. «È  la tua nemesi», commenta lapidaria.

«La mia nemesi?», sono smarrito.

Come se non avesse aspettato altro tutta la sera, Marina assume quell’atteggiamento paternalistico che era solita sfoderare durante le infinite discussioni di quando stavamo insieme, nel preciso istante in cui io smettevo di combattere…

«Proprio così, caro Massimo, la tua nemesi. Hai sempre rifuggito gli impegni, le incombenze, le scadenze – alza la voce – hai sempre guardato con condiscendenza noi normali che invece a queste stupidaggini diamo il giusto peso… quando non avevi voglia di andare alla posta a ritirare una raccomandata o a metterti in fila all’ufficio di collocamento non dicevi non ottiene niente l’uomo che prima non ha oziato… beh, tu hai sempre e solo oziato. La tua non è pigrizia, non è depressione, non è nessuno delle decine di stati patologici che siano mai stati diagnosticati. Non è una condizione passeggera, è una condizione esistenziale.»

«E così proprio tu adesso sei costretto a rispettare una procedura. Sei obbligato a trovare dei testimoni, a fare la fila allo sportello, farti le foto tessera…. ecco cosa devi fare. Per la prima volta in vita tua devi rispettare le regole!»

«Probabilmente hai ragione tu. La mia nemesi, la mia punizione, l’estrema lezione di vita… cosa importa? Ciò non toglie che ho bisogno del tuo aiuto.»

Rivolgo lo sguardo altrove: fuori ha iniziato a piovere. Mi incanto ad ascoltare il rumore del mio respiro e il ticchettio dell’acqua sui vetri (o  è Marina che ha iniziato a tamburellare con le dita da qualche parte?).

«Certo che ti aiuto…» se ne esce d’un colpo.

Scoppio di felicità. Muovo qualche timido passo verso di lei.

«In casa dovremmo fare alcuni cambiamenti. Delle migliorie…»

Mi arresto di colpo. È così difficile stare dietro ai suoi voli pindarici. Nella stanza si è fatto ancora più buio e dal pavimento proprio dove siede Marina si alza una coltre simile a foschia. Umida e appiccicaticcia tanto che i piedi mi si incollano al pavimento. Che idea assurda! Non riesco più a distinguere Marina. Separarla dal contesto. È diventata un contorno, sfocato. A tratti addirittura sembra espandersi: più alta, più grande. Marina è una voce.

«Come dici?»

«Intendo che all’inizio dovremmo stringerci un po’, anche se credo che non avrai molto di tuo da portare. Poi dovremo pensare a come ricavare il secondo bagno, e il barbecue per fuori, la domenica ti è sempre piaciuto cucinare per gli amici…»

«Scusami Marina proprio non capisco.»

«Capisci benissimo – mi si avvicina sfiorandomi il viso con dolcezza -intendo che mi sembra giusto restituire in qualche modo i doni che riceviamo, c’è scritto anche nei Vangeli… Ah, domenicano che tu non sei credente. Non importa lo dirò in modo più comprensibile, più laico – mi canzona – do ut des. Ti piace così?»

Non mi piace affatto. «Ti rendi conto cosa mi stai chiedendo? È un ricatto bello e buono – tento di protestare – e poi… come potresti accettare di avere accanto un uomo che non desidera vivere con te? Puoi aspirare a qualcosa di meglio, ad essere amata e corrisposta…»

«Tu che mi fai la lezioncina! Non ne hai alcun diritto, che ne sai di me e della mia vita? Non credo più nell’amore, in un’armoniosa vita di coppia…»

«Perché se ti disgusta la vita insieme la proponi a me?»

«Un figlio. Voglio assolutamente un figlio.»

«Quando ti ho visto sulla porta ho capito che le mie preghiere erano state esaudite. Ormai nelle preghiere sono molto pratica, sai? Non ho chiesto un miracolo, piuttosto un’opportunità, un’occasione decente. E ti sei presentato tu dopo tanti anni. Per quanto assurdo possa sembrare sei la mia opportunità.»

«Non mi guardare così non sono mica matta! Negli anni ho sviluppato quel senso del reale che a molti difetta. Che manca anche a te, caro il mio Massimo. E comunque un figlio farà bene anche a te così ti liberi definitivamente di quel egoismo del cazzo e pensi anche a qualcun altro.»

«Mi chiedi di rinunciare alla mia libertà, alla dignità…»

«Smettila di filosofeggiare. Mi indisponi. Comunque anche se fosse come dici, la verità è che non te le puoi più permettere… e poi cosa ne hai fatto di questa libertà? Cosa hai concluso?».

Qualcosa in realtà l’ho combinata. Marina non può saperlo. Ignora che ho visto le tartarughe depositare le uova su una spiaggia in Giamaica, proteggendole giorno e notte; che ho tenuto in braccio Mathias in una baracca adibita a ospedale in Nigeria; dormito sotto l’aurora boreale; che ho trascorso il Natale servendo pasti caldi ai senza tetto nel Bronx. Per un intero anno, cara Marina, ho avuto anche un lavoro “vero”, durissimo, da pescatore su una nave d’altura nel Pacifico. Per lei tuttavia quelle cose non contano niente o, almeno, non abbastanza, le etichetterebbe come passatempi o peggio, come lussi infantili. Mentre ci ripenso mi chiedo tuttavia se sia mai stata possibile una vita diversa da quella dei conformi? Una vita da inventare ogni giorno, senza preclusioni, senza vincoli, obblighi o scadenze. Senza una dimora, un contratto della luce o del gas, un conto in banca, una carta di credito o un lavoro fisso?

Per qualche tempo era sembrato possibile. Ma i vincoli, i limiti erano stati soltanto aggirati, gli obblighi rimandati. Per poi ripresentarsi a chiedere il conto. Tutti insieme.

«Forse hai ragione…», mi esce senza pensarci. Parla la mia rassegnazione.

Marina striscia al mio fianco e per un brevissimo istante la vedo bella, più bella di un tempo. Vedo finalmente i suoi occhi grandi e limpidi, accoglienti. Sembrano invitarmi a riposare, coccolano una stanchezza atavica che si è nascosta per anni nel profondo. Senza rendermene conto Marina è intorno a me. Mi abbraccia, stringendomi tra le sue spire.

FINE

Enrico Bruschi (luglio 2019)

 

 

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