Uscendo di casa non avrebbe immaginato che l’impresa potesse rivelarsi così complicata: era andato dritto dritto tutto sicuro. E invece in quel punto della piazza vicino alla brutta fontana senz’acqua dove ricordava che l’avrebbe trovata, della cabina telefonica non vi era alcuna traccia.

Si mise a studiare i dintorni. Iniziò a salirgli quell’effetto di straniamento che lo assaliva ogni qualvolta si metteva in animo di avventurarsi di nuovo fuori. Ci aveva rimuginato su per settimane, ma poi alla fine aveva sempre rimandato, fino a quel giorno. Lo aveva definitivamente convinto il desiderio di rintracciare quella donna.

Era prima della maledetta Pandemia, del lungo ricovero, della forzata clausura, del suo vivere isolato in un tempo sospeso. Doveva essere stato d’autunno perché ricordava di aver notato il biroccio fumante delle caldarroste. La prima volta si erano scambiati un sorriso cortese al supermercato, erano seguiti qualche buona giornata, prego, arrivederci tra gli scaffali. Incrociandola in fila alle casse, un giorno si era fatto avanti, offrendosi di aiutarla con i sacchetti della spesa e, usciti fuori sulla piazza, aveva proposto di prendere un caffè. Se c’era una cosa di cui doveva ringraziare l’età avanzata era che d’un tratto la timidezza che gli era costata così tanto da giovane era svanita per lasciare il posto a una disinvoltura leggera. Al bar la donna continuava ad accarezzarsi i capelli e farsi rossa in viso abbassando lo sguardo. Salutandosi, le aveva chiesto se poteva accompagnarla a casa. Lei preferiva fare per un’altra volta, ma prima di andarsene aveva strappato un pezzetto di carta dalla tovaglietta del tavolino e ci aveva scritto su il nome e il numero di telefono. Si chiamava Eloisa.

“Mi scusi sa dove posso trovare una cabina telefonica?”. L’uomo dell’edicola se ne rimase con lo sguardo perso nel vuoto. Aveva sperato di ritrovare Vittorio dietro la pila ordinata di giornali e invece al suo posto faceva capolino a difficoltà incerto su uno sgabello un ragazzo dalla faccia scura. Riprovò: “un telefono pubblico”.  Il tipo a quel punto gli fece spallucce. Pensò di andare dal fornaio, ma lo trovò chiuso nonostante fossero le dieci di un giorno lavorativo. Mentre era imbambolato davanti a quella serranda abbassata e tutta imbrattata di graffiti, gli si avvicinò una donna. Portava a spasso un cane.

“Ha bisogno d’aiuto?”

“Cercavo una cabina telefonica”.

La donna iniziò a studiarlo. “Sta bene?” gli rimpallò a voce un po’ troppo alta.

“Benissimo… devo solo chiamare una persona.” A quel punto la donna infilò una mano nel capottino alla moda ed estrasse uno di quegli apparecchi… “Può usare il mio cellulare, o mi dà il numero, chiamo io”. Scosse la testa. “Grazie fa niente, è molto gentile ma non è una cosa importante.” La donna si rimise a inseguire il cane che tirava dalla parte del parco.

Decise di girovagare un po’ per il quartiere, un tempo gli piaceva attraversarlo in lungo e in largo senza una meta o uno scopo precisi, giusto per il piacere di farlo. E così con il tempo ne aveva esplorato ogni via e vicolo, addirittura ogni anfratto. Se si fosse messo d’impegno avrebbe certamente trovato un maledetto telefono pubblico! Mentre transitava di fronte al bar del primo appuntamento con Eloisa buttò un’occhiata attraverso le vetrine, chissà forse la speranza di vederla, un colpo di fortuna ogni tanto. Davanti e dentro il bar straripava di ragazzi rumorosi, parlavano gesticolando, qualcuno urlò un evviva! alzando un bicchiere di birra. Di tutta risposta un manipolo di scalmanati gli rispose auguri… se la diede a gambe levate.

Era scomparso quel negozio di biancheria per la casa, di quella donna così gentile, come si chiamava? Al suo posto l’ennesimo negozio di custodie per cellulari di colori sgargianti che sembravano strizzargli l’occhio tra il grigiore di chincaglie digitali d’ogni risma. Di telefoni neppure l’ombra. Avvertì la stanchezza. Trovò una panchina libera accanto a un cestino vomitava rifiuti puzzolenti. Un paio di ragazzoni alti e con in mano un bicchiere di birra sfrecciarono a tutta velocità su un trespolo a due ruote. Non ne poteva più, troppa confusione, troppo disordine, per quanto ci avesse sperato, flanellare non gli dava più alcun piacere. Meglio tornarsene a casa e per quanto riguardava Eloisa, beh! dopotutto si era fatto troppe illusioni a riguardo. Rintracciò il bigliettino nel fondo della tasca, gli diede un’ultima occhiata e fece per buttarlo. Fu a quel punto che dall’altra parte del marciapiede dietro a un chioschetto sgangherato che ospitava un fiorista la vide. Attraversò preso da un’inaspettata vitalità.

La cabina telefonica non aveva più le rassicuranti porte a molla, ai vetri tra le scritte svolazzavano appiccicati alla bene e meglio brandelli di foglietti appiccicosi e ingialliti – c’era qualcuno che si offriva di dare lezioni di italiano, l’avviso di sconti di qualche tempo addietro per una manicure, una che si offriva di… smise di leggere infastidito. Dall’interno del gabbiotto, lo raggiunse un fetore insopportabile, che sapeva di malattia e solitudine. Si fece forza alzando il bavero della giacca fino a coprire il naso. Prese un fazzoletto di cotone candido e afferrò la cornetta rimanendo in bilico sulla soglia con mezzo corpo fuori. Compose il numero.

Al terzo squillo prese la linea.

“Ciao, Eloisa sono Riccardo forse non ti ricorderai di me…”

“Ciao” rispose una voce gentile dall’altra parte della cornetta. Gli si aprì il cuore

“… in questo momento non sono a casa lasciate pure un messaggio e vi richiamerò”.

Non sopportava le segreterie telefoniche. Esitò qualche istante, poi si decise, quel girovagare non aveva senso se non avesse almeno registrato un messaggio. Bip! Tutto d’un fiato informò Eloisa che se aveva piacere di rivedersi lui l’avrebbe aspettata al loro bar dalle nove alle undici dell’indomani, “per qualche giorno così magari ti organizzi con gli altri impegni”. “Ah scusa non ti lascio il mio numero perché…” la comunicazione si interruppe bruscamente. Perché me l’hanno staccato quei profittatori per qualche bolletta non pagata, concluse tra sé e sé.

La mattina alle otto e trenta era già davanti al bar. Ordinò un decaffeinato e aspettò. Il tempo passò velocemente anche grazie a un giornale appeso alla parete del bar che lesse con tutta calma, tanto nessuno dei clienti sembrava dargli alcuna importanza, incollati come erano agli schermi dei loro apparecchi digitali. Si fecero le undici senza alcun segno di Eloisa.

Il giorno dopo seguì il medesimo copione, caffè e lettura del giornale, pagando il conto scambiò persino due chiacchiere con la ragazza al banco, da quanto non parlava con qualcuno!  Scoprì che era la nipote del vecchio proprietario che era andato in pensione. Era educata e allegra. Eloisa non si presentò. Né l’indomani né i giorni successivi.

Tornò al bar sempre alla medesima ora per diverse settimane fino all’estate. A quel punto smise, si era fatto troppo caldo e gli costava sempre più fatica attraversare quelle strade infuocate. Transitando quell’ultimo giorno si fermò a leggere i necrologi appiccicati uno sull’altro nella bacheca della piazza. Li scorse con attenzione, era un’abitudine sopravvenuta con gli anni un po’ per curiosità un po’ per scaramanzia.

Una Eloisa all’età di settantanove anni era morta qualche settimana prima, ne davano annuncio affranti i due figli e nipoti. Nerini… il cognome non gli diceva niente. Eloisa aveva accennato a dei figli ed erano due probabilmente, ma non poteva giurarlo. Per qualche minuto stette a rimuginarci su.

Dev’essere lei sbottò alla fine. Si fece un segno della croce frettoloso e riprese la strada verso casa.

 

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