Difficile scrivere di caffè se non si è veri esperti. E non è il mio caso. Così ho deciso di farlo da un punto di vista narrativo. Provando a rispondere a una semplice domanda: perché beviamo caffè?

Nel mio libro, il consumo di caffè serve per ottenere riconoscimento (sociale): Franco un uomo che vuole essere considerato potente e carismatico beve il caffè Blu Mountain non perché ne sappia apprezzare l’aroma, né tantomeno perché sia in grado di distinguerlo da altre miscele altrettanto ricercate. Lo sceglie semplicemente perché gli hanno garantito che si tratta del migliore caffè al mondo. Desidera per sé sempre l’auto più potente, l’appartamento con la vista migliore, l’abito su misura… neppure il caffè sfugge alla regola “sempre e solo il meglio”. E vuole che gli altri riconoscano le sue scelte di gusto.

Sul Blu Mountain comunque Franco non sbaglia: è una qualità originaria della Giamaica che viene coltivata a oltre mille metri di altitudine e matura molto lentamente. Si tratta senza dubbio di una delle migliori qualità al mondo.

Non è l’unica però. Gli fanno buona compagnia, per citarne alcuni, l’indonesiano Kopi Luwak – i cui chicchi vengono raccolti negli escrementi dello zibetto – il panamense Hacienda La Esmeralda, o i meno noti Portorico Yauco Selecto o l’Hawaii Kona Capitain Cook.

Oggi intendere il caffè come segno di appartenenza ad una certa elite – tale per censo o per cultura – può far sorridere. Eppure all’inizio della sua diffusione in Europa (nella seconda metà del ‘700) il caffè era una bevanda per pochi. Un lusso riservato alla borghesia. Il “bel mondo” si raccoglieva nei Caffè alla moda delle capitali europee per mettere in scena il proprio benessere, ma anche – fortunatamente – per far crescere e diffondere nuove idee. A Milano Il Caffè fu il nome scelto per la nota rivista letteraria degli illuministi Verri e Beccaria.

Nell’era della borghesia il caffè diventa un acceleratore sociale. Rende più semplice e veloce (e indubbiamente più piacevole) stare con gli altri invece che chiusi in casa. Quest’ulteriore funzione del caffè resiste ancora oggi, anche se in alcuni Paesi è più evidente che in altri. Mentre in Italia i caffè (espresso appunto) si consumano per lo più velocemente al banco, in altri prendere un caffè comporta sedersi al tavolo, sorseggiarlo lentamente, trascorrere del tempo. Socializzare. È così negli Stati Uniti (patria ad esempio di Starbucks che della possibilità offerta ai clienti di trascorrere del tempo nel punto vendita ha fatto un elemento differenziante di business), o in Israele. Che dire del caffè turco la cui necessità di farlo depositare sul fondo del bicchiere fa in modo che ci si debba intrattenere con gli altri nell’attesa (se lo bevete prima di un certo tempo il caffè turco è indigesto)? A Stoccolma, a Helsinki o Reykjavik intorno ai grandi tavoli conviviali dei caffè fioriscono negozi di abbigliamento o di arredamento, o librerie dove puoi trascorrere un’intera giornata.

C’è  poi il consumo funzionale del caffè.  Insomma c’è chi lo beve per stare sveglio. Magari ad alcuni di questi neanche piace. Fuor di dubbio che la caffeina sia un eccitante, tuttavia alcuni sostengono che sia poca cosa e che faccia più effetto una lattina di coca cola. Addirittura conosco persone che consumano caffè di notte per conciliare il sonno.

Infine (forse) ci sono molte persone che hanno bisogno di un rituale. Magari scopri che il caffè lo preferiscono con lo zucchero, il latte, o al ginseng. Personalmente lo bevo nero e amaro e trovo un abominio, la negazione stessa del caffè, ogni tipo di surrogato o di contaminazione, che sia l’aggiunta di latte, che sia il caffè schiumato, shakerato, marocchino, d’orzo o decaffeinato.

E chi beve caffè solo perché gli piace? Ci ho pensato un po’ su… difficile!

P.S. La chiusa di questo post è chiaramente una provocazione. L’ho scelta perché se state al gioco e vi domandate cosa si nasconde dietro al vostro consumo di caffè sarebbe troppo semplicistico catalogarvi tra quelli che lo fanno solo perché è buono.

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